Il 15 maggio 2025 segnerà il 77° anniversario della Nakba. Per i palestinesi nel mondo, non è una semplice data storica da commemorare, ma una ferita aperta, una “catastrofe” – questo il significato della parola araba Nakba – le cui conseguenze continuano a definire ogni aspetto della loro esistenza. Non si tratta di un evento confinato al 1948, ma di un trauma collettivo e di una realtà opprimente che persiste ancora oggi.
Questa narrazione, a lungo marginalizzata o negata, sta guadagnando un riconoscimento internazionale più ampio. Le Nazioni Unite stesse, per la prima volta nella loro storia, hanno commemorato ufficialmente la Nakba nel 2023, su mandato dell’Assemblea Generale, che ha anche richiesto eventi commemorativi annuali. Questo passo, seppur simbolico, riconosce la centralità della Nakba per l’identità e le aspirazioni politiche palestinesi. Tuttavia, per milioni di palestinesi, questo riconoscimento stride con la negazione continua dei loro diritti fondamentali. L’insistenza sull’uso del termine “Nakba” è, in sé, un atto di resistenza contro la cancellazione della memoria e della storia palestinese. Mentre il mondo si appresta a celebrare le commemorazioni pianificate per il 77° anniversario, la realtà sul terreno, specialmente a Gaza e in Cisgiordania, offre una testimonianza brutale del fatto che la catastrofe iniziata nel 1948 non è mai veramente terminata ma si è trasformata oggi in un genocidia in atto.

L’origine (1948)

Prima del 1948, la Palestina era una terra multietnica e multiculturale. Tuttavia, le crescenti ondate migratorie sioniste, iniziate alla fine del XIX secolo e intensificatesi negli anni ’30 sotto il Mandato Britannico, alimentate dalle persecuzioni in Europa e dall’obiettivo politico di creare uno stato ebraico in Palestina, acuirono le tensioni. La Dichiarazione Balfour del 1917 e il Piano di Partizione dell’ONU del novembre 1947 (Risoluzione 181), che proponeva la divisione della Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico, furono percepiti dal mondo arabo come ingiusti e una violazione dei diritti della popolazione autoctona.
Ciò che seguì fu un cataclisma per i palestinesi. Tra la fine del 1947 e il 1949, durante la guerra civile che precedette la fine del Mandato Britannico e la successiva prima guerra arabo-israeliana seguita alla dichiarazione d’indipendenza israeliana nel maggio 1948, circa 750.000 palestinesioltre la metà della popolazione araba dell’epoca e più dell’80% di coloro che vivevano nei territori che sarebbero diventati Israelefurono costretti a lasciare le proprie case o furono espulsi con la forza. Questo esodo di massa non fu un incidente di guerra, secondo la prospettiva palestinese e le ricerche di storici come Ilan Pappé, ma il risultato di una deliberata politica di “pulizia etnica“. Pappé e altri studiosi indicano l’esistenza di piani dettagliati, come prova di un progetto sistematico volto a svuotare la terra dai suoi abitanti arabi per assicurare una solida maggioranza ebraica nel nuovo stato.
La violenza fu uno strumento chiave di questo sradicamento. Milizie sioniste come l’Haganah, l’Irgun e il Lehi (Banda Stern) attaccarono città e villaggi palestinesi ben prima dell’ingresso degli eserciti arabi nel maggio 1948. Si stima che circa 15.000 palestinesi furono uccisi durante questo periodo. Oltre alle vite perse e alle persone sradicate, la Nakba significò anche la distruzione fisica della Palestina araba. Più di 530 villaggi e città furono spopolati; molti furono rasi al suolo per impedire il ritorno dei loro abitanti, mentre altri furono ripopolati da ebrei e rinominati con nomi ebraici.Questa distruzione sistematica mirava a cancellare le tracce della presenza palestinese dalla terra, rendendo tangibile la “sostituzione” che è al cuore del processo della Nakba. L’esodo continuò anche dopo la fine formale della guerra, con la “pulizia” delle zone di frontiera che portò all’espulsione di altre decine di migliaia di palestinesi fino al 1950.

La crisi dei rifugiati

La Nakba del 1948 ha generato una delle crisi di rifugiati più lunghe e irrisolte della storia moderna. Quei circa 750.000 palestinesi sradicati dalle loro case sono diventati, insieme ai loro discendenti, una popolazione di rifugiati registrati presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) che oggi conta quasi 5,9 milioni di persone. Questa cifra rappresenta un minimo, poiché non include tutti i palestinesi sfollati che non si sono registrati. Complessivamente, i rifugiati e gli sfollati interni costituiscono oltre i due terzi della popolazione palestinese mondiale.
Circa un terzo di questi rifugiati vive ancora in 58 campi riconosciuti, in condizioni socio-economiche precarie, caratterizzate da sovraffollamento, alloggi inadeguati e infrastrutture carenti. Campi come Jabalia a Gaza, Baqa’a in Giordania o Burj El Barajneh e Ein el-Hilweh in Libano sono diventati simboli di questa esistenza sospesa. Nati come soluzione temporanea, i campi sono diventati dimore permanenti per generazioni, testimonianza tangibile del fallimento della comunità internazionale nel trovare una soluzione giusta e duratura. Tuttavia, i campi sono anche spazi di forte identità comunitaria, memoria collettiva e resistenza politica e culturale.
La vita dei rifugiati varia notevolmente a seconda del paese ospitante. Mentre in Giordania la maggior parte ha ottenuto la cittadinanza (con l’eccezione significativa dei rifugiati originari di Gaza) e gode di una relativa integrazione, in Libano i palestinesi affrontano gravi discriminazioni: sono esclusi dalla cittadinanza, da molte professioni e dall’accesso a servizi pubblici essenziali come sanità e istruzione, vivendo in uno stato di perenne precarietà legale ed economica. In Siria, godevano di diritti civili ma la guerra civile ha nuovamente sconvolto le loro vite, costringendo molti a una seconda fuga.
In questo contesto, l’UNRWA assume un ruolo fondamentale e complesso. Creata nel 1949 specificamente per assistere i rifugiati palestinesi, fornisce servizi essenziali come istruzione, sanità e assistenza sociale a milioni di persone. Il suo mandato, che si estende ai discendenti maschi dei rifugiati originari, riconosce la natura ereditaria dello status di rifugiato palestinese, in attesa di una “soluzione giusta e duratura”. Per questo, l’UNRWA è diventata un simbolo della responsabilità internazionale irrisolta e della persistenza della questione dei rifugiati. Proprio per questo ruolo simbolico e operativo, l’agenzia è stata oggetto di attacchi politici e finanziari, in particolare da parte di Israele e dell’amministrazione Trump, che mirano a smantellarla per liquidare la questione dei rifugiati e il diritto al ritorno.

La vita sotto occupazione e assedio

Per i palestinesi che non furono espulsi oltre i confini nel 1948, o per quelli che vivono nei territori occupati da Israele nel 1967, la Nakba non è un ricordo lontano ma una realtà quotidiana. La guerra del 1967, conosciuta come la Naksa (“la battuta d’arresto” o “la sconfitta”), rappresentò un secondo trauma collettivo, con l’espulsione di altre 250.000-300.000 persone e l’inizio dell’occupazione militare israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza. Questa occupazione, che dura da 57 anni, ha completato il controllo israeliano su tutta la Palestina storica e ha creato un sistema di controllo e oppressione che perpetua lo sradicamento iniziato nel 1948.
In Cisgiordania e a Gerusalemme Est, l’occupazione si manifesta attraverso una miriade di politiche volte a frammentare il territorio, controllare la popolazione e facilitare l’espansione israeliana. Gli insediamenti israeliani, illegali secondo il diritto internazionale, ospitano circa 750.000 coloni e sono in continua espansione, erodendo la terra palestinese e rendendo impossibile la creazione di uno stato palestinese contiguo. La violenza dei coloni è un fenomeno quotidiano, spesso perpetrato con la connivenza o la protezione delle forze israeliane: attacchi a persone, distruzione di proprietà, sradicamento di ulivi, intimidazioni.Questa violenza, insieme alle restrizioni di accesso, crea un “ambiente coercitivo” volto a spingere i palestinesi, specialmente nelle comunità rurali e beduine dell’Area C (che costituisce quasi il 60% della Cisgiordania ed è sotto pieno controllo israeliano), ad abbandonare le loro terre – un “trasferimento silenzioso”.
La demolizione di case palestinesi per mancanza di permessi di costruzione – permessi che Israele rende quasi impossibili da ottenere per i palestinesi nell’Area C e a Gerusalemme Est – è una pratica sistematica. Migliaia di strutture sono state demolite negli ultimi anni, lasciando decine di migliaia di persone senza casa. A ciò si aggiunge un regime di restrizioni alla libertà di movimento senza precedenti: centinaia di checkpoint, blocchi stradali, cancelli e un complesso sistema di permessi frammentano la Cisgiordania in enclave isolate, ostacolando l’accesso al lavoro, all’istruzione, alle cure mediche e persino ai legami familiari. Il controllo israeliano si estende anche alle risorse naturali, con una palese disparità nell’accesso all’acqua: i coloni israeliani consumano in media tre volte più acqua dei palestinesi in Cisgiordania.Organizzazioni per i diritti umani come B’Tselem sostengono che questo sistema di controllo differenziato, basato sull’etnia e volto a mantenere la supremazia ebraica su tutto il territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, costituisce il crimine di apartheid.
La Striscia di Gaza, già sovraffollata e povera prima del 2007, è stata sottoposta a un blocco quasi totale da parte di Israele, considerato una forma di punizione collettiva illegale secondo il diritto internazionale. Questo assedio, ulteriormente inasprito dopo l’ottobre 2023 fino a diventare un blocco quasi completo dell’ingresso di aiuti, ha strangolato l’economia, causando tassi di disoccupazione e povertà altissimi, e ha reso la vita quotidiana una lotta per la sopravvivenza, con cronica mancanza di elettricità, acqua potabile, medicine e beni di prima necessità. Gaza ha subito ripetute offensive militari israeliane su larga scala, che hanno causato decine di migliaia di morti e feriti, in gran parte civili, tra cui migliaia di bambini, e una distruzione immensa di case, scuole, ospedali e infrastrutture vitali. L’offensiva iniziata nell’ottobre 2023 ha portato la catastrofe a un livello senza precedenti, con oltre 52.400 morti segnalati fino ad aprile 2025, lo sfollamento forzato di quasi tutta la popolazione (circa 1,9 milioni di persone), una crisi umanitaria catastrofica con rischio imminente di carestia, e accuse di genocidio avanzate da esperti e organizzazioni internazionali. L’accesso degli aiuti umanitari è stato sistematicamente ostacolato o bloccato da Israele.
Questa realtà quotidiana di oppressione, frammentazione e violenza, documentata da rapporti di OCHA, B’Tselem e altre organizzazioni, non è vista dai palestinesi come una serie di crisi separate, ma come la manifestazione continua della Nakba, un processo incessante di sradicamento e negazione dei diritti fondamentali.

La speranza indomita del diritto al ritorno

Al centro della memoria collettiva palestinese e delle loro aspirazioni politiche risiede il diritto al ritorno. Questo principio afferma che i rifugiati palestinesi, sia quelli della prima generazione che i loro discendenti, hanno il diritto inalienabile di tornare alle case e alle terre da cui furono espulsi nel 1948. Questo diritto è ancorato principalmente alla Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, adottata l’11 dicembre 1948.
Il paragrafo 11 di questa risoluzione, ripetutamente riaffermato dall’Assemblea Generale nel corso dei decenni, dichiara che “i rifugiati che desiderano ritornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero essere autorizzati a farlo alla data più presto possibile, e che un risarcimento dovrebbe essere pagato per le proprietà di coloro che scelgono di non ritornare…“. Per i palestinesi, questa risoluzione non è una semplice raccomandazione, ma il riconoscimento internazionale di un diritto fondamentale basato anche su principi più ampi del diritto internazionale consuetudinario e dei diritti umani, come il diritto di ogni individuo a lasciare e tornare nel proprio paese (Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Art. 13) e il diritto a non essere arbitrariamente privati del diritto di entrare nel proprio paese (Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, Art. 12). L’interpretazione palestinese della Risoluzione 194 include tre diritti interconnessi: il diritto al ritorno alle proprie case originarie, il diritto alla restituzione delle proprietà confiscate e il diritto al risarcimento per le perdite subite.

Il diritto al ritorno è molto più di una questione legale o logistica; è una questione esistenziale, profondamente legata all’identità palestinese e alla richiesta di giustizia per l’espropriazione subita. Le chiavi delle case perdute, spesso conservate e tramandate di generazione in generazione, sono diventate un potente simbolo di questo legame indissolubile con la terra e della speranza del ritorno. Non si tratta solo di tornare a un luogo fisico, ma di riappropriarsi di una storia, di una dignità e di un senso di appartenenza negati. È la richiesta di riconoscimento della Nakba come ingiustizia storica e l’affermazione che la pace duratura non può prescindere dalla riparazione di quel torto originario.

Israele, tuttavia, ha sempre respinto categoricamente il diritto al ritorno dei palestinesi come un “diritto”. Lo considera una questione politica da negoziare nell’ambito di un accordo finale, sostenendo che l’attuazione di tale diritto minerebbe l’esistenza stessa di Israele come stato a maggioranza ebraica. Dal punto di vista palestinese, questo argomento della “minaccia demografica” rivela la natura intrinsecamente esclusivista dello stato sorto sulla loro espropriazione, uno stato che privilegia il suo carattere etnico rispetto ai diritti universali dei palestinesi. I vari processi di pace, inclusi gli Accordi di Oslo, hanno sistematicamente fallito nell’affrontare adeguatamente la questione dei rifugiati in linea con la Risoluzione 194, spesso marginalizzandola o proponendo soluzioni basate sul reinsediamento in altri paesi o in un futuro stato palestinese limitato, tradendo così le aspettative e i diritti dei rifugiati. Nonostante la posizione israeliana e le difficoltà politiche, per milioni di palestinesi il diritto al ritorno rimane una speranza indomita e una condizione imprescindibile per una pace giusta.

In conclusione…

Settantasette anni dopo il 1948, la Nakba rimane la ferita centrale nell’esperienza palestinese, un trauma collettivo che non si è cicatrizzato perché la catastrofe non è mai cessata. È un processo continuo di sradicamento, espropriazione, frammentazione e negazione dei diritti che si manifesta quotidianamente nella vita dei rifugiati in diaspora, dei palestinesi sotto occupazione in Cisgiordania e Gerusalemme Est, e di quelli sotto assedio e bombardamenti a Gaza.
In questo contesto, commemorare la Nakba ogni 15 maggio è un atto vitale di resistenza. È sfidare la narrazione che cerca di negare, minimizzare o giustificare la catastrofe. È affermare la propria esistenza, la propria identità e il proprio legame indissolubile con la terra palestinese, nonostante decenni di tentativi di cancellazione fisica e culturale. La comunità internazionale inizia a riconoscere più apertamente la Nakba, ma questo riconoscimento rimane vuoto senza azioni concrete per porre fine all’ingiustizia che continua.
Dalla prospettiva palestinese, una pace vera e duratura non può essere costruita sulla negazione della storia o sulla perpetuazione dell’oppressione. Richiede il riconoscimento della responsabilità storica per la Nakba e l’attuazione dei diritti inalienabili del popolo palestinese, sanciti dal diritto internazionale: il diritto all’autodeterminazione, la fine dell’occupazione e una soluzione giusta per la questione dei rifugiati basata sul diritto al ritorno. Finché questi diritti rimarranno negati, la Nakba continuerà. E finché la Nakba continuerà, la memoria sarà un campo di battaglia e ricordare sarà un atto di resistenza, un’affermazione della volontà palestinese di esistere, liberi e con dignità, nella propria terra.

Dan ROMEO